lunedì 22 ottobre 2012

Coppia Zoomorfica, Max Ernst



Puoi bere le immagini con i tuoi occhi.



Sagome inquietanti, sfondi luminosi e una tecnica artistica che supera i tempi sono le caratteristiche di una tendenza, che sarebbe riduttivo definire movimento, di una corrente quale quella Surrealista che ha posto le basi per quella che in modo abbastanza inconsapevole chiamiamo "Arte Moderna". Ebbene il fondamento della modernità affonda proprio nella concretezza astratta di queste tele spesso cupe, solidamente liquide nel raffigurare non situazioni, bensì potremmo chiamarle intuizioni. Ed è curioso notare come atteggiamenti, a partire da quello Dadaista, senza regole precise e caratterizzati da uno sminuimento del significante (esteticamente inteso nel senso classico), nascano proprio da questo immateriale e terribile senso estetico. Ed è proprio in questo contesto che si muove Max Ernst, tedesco, artista profondamente eclettico, studioso di filosofia della mente e affascinato dalla nuova arte cognitiva, tendenza che in tutta Europa sta dilagando a macchia d'olio. Ma per comprendere i presupposti di quest'opera in particolare, dobbiamo fare chiarezza sulle basi del Surrealismo, come nasce, cosa sta a significare. E' il 1924 quando Andrè Breton pubblica il Manifesto surrealista, dando il via ad una corrente che nel corso del Novecento riscuoterà il consenso di una porzione elitaria di intellettuali, ma che cambierà i destini dell'arte figurativa per sempre. Il termine, già utilizzato da Apollinaire, dimostra questa nuova tensione a legittimizzare le "realtà alternative", quali i sogni, il subconscio e la dimensione devastante dell'immaginazione. Con Breton il nostro Ernst intrattiene in un primo momento una solidale collaborazione, per poi distaccarvisi succesivamente. Quest'opera è, a mio parere, il più alto esempio della nuova ispirazione Surrealista. Abbiamo un fondo chiaro (albeggiante?) su cui si stagliano, nel vero senso della parola, figure nere che creano appunto un profondo contrasto. Una tela complessa, realizzata su vari livelli sovrapposti : la parte inferiore, non realizzata con la nota tecnica del frottage (come invece potrebbe sembrare), è stata invece composta frustando la base con una corda intrisa nella vernice nera, e da cui scaturisconole striature che scorrono visibilmente in modo verticale verso il basso. Non è il sogno che scaturisce l'opera, ma l'opera che, fondamento della realtà, pone le basi per l'associazione onirica. E' un concetto cartesiano che risale alla filosofia razionalistica del Seicento: è forse il sogno un realtà non alternativa, valido ontologicamente quanto il mondo empirico degli svegli? Per i Surrealisti si. E, tecnicamente, ciò che vediamo nei sogni, queste figure oscure e appannate, sono in realtà entità che esistono realmente. Entità come quelle che vediamo in primo piano: una figura di cui si distinguono le braccia ed una testa amorfa, circolare, mentre accarezza una sorta di uccello appollaiato su un trespolo. Non intendiamo il quando, nè il dove, ma se tutto ciò si può figurare perchè non dovrebbe esistere, o dovrebbe solo come concetto? Non possiamo nascondere che il soggetto in questione ci trasmette una certa inquietudine. Ed è normale, trattandosi di idee che emergono dai lati più oscuri della nostra mente, da una realtà insensata e irrazionale che non può essere raggiunta se premettiamo l'esistenza di un Super-Io freudiano, che però, fortunatamente, non ha poteri mentre dormiamo e realizziamo i nostri peggiori incubi. La visione febbrile è la conseguenza dell'insanità mentale potenzialmente propria ad ogni essere umano. Tutto ciò rende quest'arte e quest'opera in particolare una tra le più affascinanti di sempre, una tela per cui nutro una certa attrazione e che evoca in me momenti precisi. Tenevo a presentare questo capolavoro come omaggio alla persona che mi ha iniziato all'arte, la mia professoressa di Storia dell'Arte, scomparsa pochi giorni fa. Grazie a lei ho appreso (e compreso) la terribile potenza estetica di cui l'arte è portatrice e il significato (nascosto) che ogni opera reca con sè. E che per lei non aveva segreti. Da questa realizzazione ho compreso quanto questa materia sia in realtà sottovalutata nel contesto scolastico italiano, e al contempo ho stimato il suo atteggiamento, volto a non accettare questa condizione minoritaria, mettendoci cuore e mente in ogni singolo minuto di lezione (che spesso sforava nell'ora successiva), a mio parere una virtù abbastanza rara da ritrovare in uno statale sottopagato per le sue conoscenze. Si, perchè lei era davvero oltre. Una triste perdita, che al contempo non lo è davvero, giacchè il suo insegnamento non è stato vano, per me in primis, e per altre (poche) persone in secondo luogo.

Grazie Trap., sarai sempre nei nostri cuori.

lunedì 14 novembre 2011

La Persistenza della Memoria, Salvador Dalì


Ci sono giorni in cui credo di morire per un'overdose di soddisfazione.



Per comprendere a fondo un'opera surrealista bisogna innanzitutto chiarire la natura del movimento e il contesto culturale nel quale nasce il Surrealismo. Generalmente, infatti, l'atteggiamento artistico della seconda metà del Novecento rispecchia una netta e ineliminabile voglia di rompere i legami con il passato. Tutto ciò che riguarda la tradizione verrà perciò abbattuto, e le arti, non più regolate da canoni e regole ormai in vigore da tempo, subiranno un profondo rinnovamento riguardo la forma e i contenuti. In Dalì questo ragionamento assume un'ulteriore profondità, arrivando a toccare i limiti inesplorati dell'inconscio umano. I suoi dipinti infatti sono disseminati di immagini spesso inquietanti, popolati di metafore e figure simboliche. I surrealisti arrivano al concepimento dei propri soggetti attraverso il processo dell'associazione libera, secondo il quale esiste una serie di rimandi a partire da un impulso iniziale che inaugura una serie di elaborazioni, spesso deliranti e apparentemente insensate.
Ciò si denota nell' opera surrealista per anotnomasia, La Persistenza della Memoria, dove l'autore ci propone una profonda riflessione sullo scorrere del tempo a partire da un'osservazione empirica, ovvero la vista di un formaggio molle, il Camembert, la cui consistenza semimelliflua traspare l'intero palcoscenico. Potremmo infatti definire l'opera la teorizzazione pittorica del concetto di ipermolle riferita a un concetto, quello del tempo, che dovrebbe essere una costante, un "a priori", ma che invece appare nella tela smembrato e privo di consistenza. Questa concezione del tempo trova riscontro soprattutto nella filosofia moderna, particolarmente in H.Bergson, secondo cui la nostra percezione, filtrata attraverso l'emotività, rappresenta la vera durata di ciò che fino ad allora, da Hume in poi, era stata unicamente una grandezza misurabile e matematicamente valida.
Ciò viene inscenato da Dalì in una tela tanto aspra nel connubio tra i vari elementi quanto esteticamente elevata. Ad una prima analisi è innanzitutto forte la contraddizione paesaggistica. Da un lato la solidità del deserto, della figura vegetale smorta e degli scogli, in un'innaturale asimmetria. D'altra parte, la flaccidità degli orologi posti rispettivamente sul masso squadrato, sul ramo e sull'inquietante viso che riposa sulla sabbia.
La riflessione esistenziale però avvolge anche un significato più profondo, tematizzato in quello che possiamo definire un tòpos della pittura di Dalì, ovvero la presenza delle formiche, che in questo caso sono raffigurate nell'atto del corrodere un'orologio, diverso e solido rispetto agli altri. Qui emerge anche l'aspetto distruttivo del tempo, che consuma inesorabilmente ogni cosa, anche quelle che apparentemente sembrano più durature, in un brulicare di eventi lento e incessante. La tela è pervasa di un'ineluttabile irrazionalità (si noti la superficie in alto a sinistra, che a prima vista presenta la consistenza ed il colore del mare, ma in realtà, se si fa attenzione, è parte della distesa solida).
Dalì arriva a concepire qualcosa di improponibile nella realtà, impossibile da razionalizzare in alcun modo.
Dal formaggio è nata una speculazione filosofica. Il Surrealismo ha abbattuto tutto ciò che aveva alle spalle, eliminando ogni barriera spazio-tempo, astraendosi su basi empiriche.
Ci ha proiettati nei più reconditi siti della mente umana, ed ha scatenato in noi un'assurda e devastante facoltà immaginifica, che stordisce all'impatto, ma affascina eternamente.

lunedì 8 agosto 2011

L'Incendio della Camera dei Lord e dei Comuni, William Turner


Il Sole è Dio.



Nella notte del 16 Otobre 1934 un incendio si abbattè sulla Camera dei Lord e dei Comuni a Londra. Tra la gente, assiepata sulle rive del Tamigi, sconvolta per il terribile evento, vi era anche Joseph William Turner. L'artista rappresentò sul momento l'accaduto da varie angolazioni, spostandosi in barca da una riva all'altra del fiume. Ma ciò non bastava. Per rendere ancora più drammatico il contesto si introdusse nella folla, cercando di cogliere le singole espressioni e gli stati d'animo di ciascuno, di rendere al meglio l'attegiamento dell'uomo dinanzi alla forza distruttrice della natura. La carica del sublime qui assume una portata sconcertante: l'uomo è sbigottito e si sente impotente, ma nonostante il suo istinto lo induca a fuggire per rimanere in vita, egli è fatalmente attratto dalla morte. E ne ricava un piacere estetico addirittura superiore. Con quest'opera si rompe definitivamente il contatto artistico con il passato, sia dal punto di vista formale che contenutistico. Turner non intende rappresentare un ritratto della realtà (elemento tipico invece della tradizione), ma raffigurare sulla tela un'impressione istantanea, irreversibile e non più vivibile se non attraverso l'opera stessa. Ci riesce anche attraverso una raffinatissima preparazione artistica, dopo innumerevoli studi sul colore e sulla luce. In Turner la materia appare smembrata, dilaniata, ancor di più sul sito dell'incendio, dove non avremo davvero potuto scorgere nulla se un soffio di vento non avesse spostato per un secondo le fiamme, permettendoci di vedere in lontananza i resti dell'edificio. Se una volta il colore era semplicemente un ornamento, un elemento per "riempire" la forma, ora invece rompe i confini del contorno, invadendo lo spazio e essendone il vero protagonista. Possiamo delineare, in accordo con la teoria dei colori di Goethe, due tonalità fondamentali nel dipinto. Una tonalità fredda, che costituisce il cielo, l'acqua e il ponte in lontananza. Una tonalità calda che si oppone violentemente alla prima, che invece pervade di rosso i corpi delle persone sulla riva e l'alta colonna di fuoco in lontananza.
Il calore della luce era per Turner sinonimo di divinità, che egli pensava risiedesse nei raggi del sole o nelle fiamme ardenti. Per questo motivo elementi del genere occupano una posizione primaria in molte delle sue opere. Con grande stima lo definisce il critico britannico Ruskin "il più spontaneo traduttore degli umori della natura". Meno felicemente lo ricorda Monet. Perché? " Non ha disegnato abbastanza il colore e ne ha messo troppo".
Ma indiscutibili onori vanno senz'altro attribuiti al più significativo degli artisti britannici di tutti i tempi, ad un uomo temerario, curioso, intellettualmente vivace e appassionato. E alla sua magnifica opera.

venerdì 8 luglio 2011

L'Abbazia nel Querceto, Caspar David Friedrich



Per vivere in eterno,
bisogna spesso abbandonarsi alla morte.


Nella cupa e malinconica atmosfera di un'alba nordica si stagliano all'orizzonte, immerse tra le querce, le rovine dell' antica abbazia gotica di Eldena, nei pressi di Greifswald. 
Un gruppo di monaci si sta apprestando a dare sepoltura ad un proprio fratello morto. Il corteo si è già addentrato nell'oscurità delle rovine, tanto che è difficile scorgere nitidamente i corpi che avanzano silenziosi.
La porzione inferiore della tela è caratterizzata da tonalità dense e molto scure, consistenti e voluminose. Ne sono l'esempio più evidente le lapidi che affiorano dal terreno fangoso, ed ancora i resti dei cespugli, gli scheletri dei fusti disseminati tutt'attorno il corpo centrale dell'edificio religioso. La natura sembra decantare passivamente in questo clima di morte che aleggia nel mattino nebbioso, impotente contro l'azione corrosiva del tempo. Nemmeno la materia inorganica, il marmo, le istituzioni religiose e il potere che le ha sempre contraddistinte sono immuni alla decadenza e al disfacimento. Dal dato oggettivo di un ricordo passato, l'autore imprime all'opera un forte carattere allegorico, addentrandoci in una riflessione sul termine ultimo dell'esistenza umana e della stessa materia da cui siamo composti.
Ricorrono nell'opera i temi principali della scuola cimiteriale settecentesca; in particolare Friedrich si ricollega ad autori come Gray, Young e MacPherson, che circa mezzo secolo prima avevano anticipato le tendenze preromantiche attraverso odi crepuscolari dalle tonalità crude e macabre. Davvero tutto ha termine con la morte o l'uomo, nella sua relativa ignoranza non riesce a comprendere un'essenza superiore che pervade il tutto?
La risposta di Friedrich risiede nella parte superiore della tela. Alle tenebre della Terra si contrappone la candida luce di un cielo albeggiante, evidente richiamo all'Aldilà cristiano. Ad una prima interpretazione l'opera apparirebbe come un'allegoria del passaggio dalla condizione materiale alla vita eterna. La morte perde quell'accezione unicamente negativa che aveva contraddistinto la tendenza Materialistica precedente, per divenire simbolo di catarsi.
Richter ritenne Friedrich un patetico e impotente fruitore dei simbolisimi, arbitrario mediatore tra allegoria e qualcosa di troppo immenso da essere spiegato con essa.
Come non si può apprezzare colui che, consapevole della propria imperfezione e della propria infinitesimale rilevanza, con i metodi concessi dalla contingenza umana, ricerca con un sentimento spontaneo e infantile il Dio in cui crede in tutto ciò che lo circonda, e si impegna a tradurre ciò in arte?